Ci sono vie che vengono presto dimenticate ed alte che non riesci più a togliertele dalla testa.
Passai per la prima volta nella Valle del Sarca nella primavera del 2017, all’epoca avevo 22 anni e scalavo su quelle pareti con le mie scarpette katana azzurre in cerca del primo tiepido sole dopo il lungo inverno passato a far cascate. Fu così che un giorno, passando per Dro, vidi per la prima volta l’enorme parete Est del Monte Brento, quel giorno ero anche io uno tra i tanti automobilisti che passava da quelle parti guidando l’auto con il naso all’insù, impossibile per chiunque rimanere indifferente di fronte ad una parete così, la mia immaginazione viaggiava ed io sognavo.
Negli anni passai più volte sotto quella parete ed ogni volta la guardavo con gli occhi di un bambino, diventò ben presto un chiodo fisso. Sognavo, mi informavo, mi allenavo, provavo. Negli anni iniziai ad apprezzare la solitudine in parete, dove l’unico orologio che esiste è quello della natura, dove sei nudo davanti a te stesso. Una dimensione spesso criticata e non compresa che il più delle volte ho tenuto tra me, una dimensione capace di darti tanto.
Più volte mi sono trovato sotto il Brento da solo, un nodo alla gola e le emozioni che si amplificano già al parcheggio, non ho mai avuto il coraggio di provarci, ogni volta riaccendevo l’auto e ripiegavo su altre salite, o tornavo direttamente a casa…fallire è una vittoria certe volte.
La sera del 3 aprile mi trovo di nuovo lì, il Brento e le stelle mi guardano dormire nel mio piccolo furgone, non chiudo occhio per tutta la notte, dentro la mia testa la scalata è già iniziata. Al mattino seguente la motivazione è alta, così parto di buon’ora con uno zaino carico di ferraglie e pensieri. “Universo Giallo” è la mia destinazione, un lungo viaggio di 1100m tra placche, tetti e strapiombi, una linea logica ed elegante aperta per i suoi primi 17 tiri da Furlani, Bortolamedi, Rossi e Cantaloni tra il 1975 ed il 1978, dei visionari d’altri tempi, ed ultimata da D. Filippi e F. Sartori nel 2007.
Il silenzio che mi avvolge è interrotto dal frastuono dei Base Jumpers che si lanciano con le tute alari dal Becco d’Aquila, proprio dove termina la mia via. Forse sono pazzi, o forse sono anche loro dei sognatori, magari sognano di volare, via da questa società omologata.
Attacco la via in mattinata, i primi nove tiri fanno parte di una lunga placca appoggiata dalle difficoltà non troppo elevate, eppure lo zaino anche se svuotato dalla ferraglia pesa sulle spalle, impiego tutto il giorno per arrivare al giardino sospeso dove allestirò il primo bivacco. Ceno e mi sdraiato nel mio sacco a pelo, non posso far altro che guardare in alto e lasciarmi abbracciare dall’anfiteatro del Brento, pronto a passare una notte al fresco.
L’esposizione in pieno est gioca a mio favore e mi regala un alba stupenda, alle prime luci inizio a darmi da fare con le staffe.
I chiodi a pressione del 1975 sono ora arrugginiti e precari, per fortuna qualche nuovo spit mi lascia tirare un sospiro di sollievo qua e là. La mente vaga ed io vago, perso in un universo di roccia gialla, talvolta solida talvolta precaria, le ore passano senza accorgermene così come i tiri, al crepuscolo arrivo al diciassettesimo tiro dove allestirò il secondo bivacco, il vuoto è totale ed il buio mi circonda. Stainkotter arrivò qui prima di abbandonare questo suo futuristico progetto.
Pensavo di riuscire ad uscirne in due giornate piene invece mi trovo a dieci tiri dall’uscita, dieci tiri con una chiodatura sicura ma fisicamente impegnativi, i viveri scarseggiano ed i 700 metri di vuoto sotto di me si fanno sentire. Mercoledì mi sveglio prima dell’alba consapevole che sarà una giornata infinita, oggi dovrò affrontare il tiro chiave, un tetto di 10 metri oltre il quale l’unica via d’uscita sarà la cima, ritirarsi con quegli strapiombi diventa quasi impossibile.
Salgo a piccoli passi sulle mie scalette che volano via col vento, la fatica e la sete si fanno sentire, mi è rimasto solo mezzo litro d’acqua per tutto il giorno, devo farmelo bastare. Come se non ne avessi già abbastanza perdo rocambolescamente una staffa, son così costretto a costruirne una dalla dubbia efficacia con dei cordini. Alle 19.00 sono al penultimo tiro, ormai vedo la fine , le forze sono finite ma a piccoli passi continuo verso il mio obiettivo, l’aria è gelida, arrivo in cima alle 20.40 di mercoledì 6 aprile 2022, dopo tre giorni pieni in parete, staccare i piedi dalle staffe è una liberazione interiore, attimi impagabili per un sognatore che, per una volta, ci ha provato.
La discesa è un avventura a se, la frontale per qualche strano motivo non funziona, uso così il telefono come torcia anche se la batteria ha il 15% di carica, il sentiero è innevato ma evidente, qua e là mangio un po’ di neve per idratarmi un minimo e dopo circa 1.20h arrivo a San Giovanni al Monte, sono le 22.30 e non c’è anima viva in giro, spengo il telefono per risparmiare quel poco di batteria e prendo la strada asfaltata per evitare di perdermi tra sentieri sconosciuti. Scendo per un infinità di chilometri, le ore passano, arrivo a Padaro a notte fonda ma anche li non c’è nessuno in strada disposto a darmi un passaggio, non mi rimane altro da fare che arrivare ad Arco e cercare un hotel. Raggiungere Arco dalla cima del monte Brento è un calvario, son circa 18km, 12 dei quali su asfalto, lo zaino pur essendo senza pensieri è tornato pieno di ferraglia, sono stanchissimo e gli ultimi chilometri li percorro 100 passi alla vola, il mio fisico non ce la fa più, potrei dormire per strada in un angolo ma il mio sacco a pelo è umido e non voglio più dormire al freddo. Arrivo al centro di Arco alle 2.00 di notte, suono a qualche hotel ma nessuno si fa vedere, non so che fare, provo a fare l’autostop ma nessuno si ferma, provo così a rincarare la dose sventolando 50 euro a bordo strada, dopo 5 minuti magicamente una giovane coppia passata pochi minuti prima si ferma, ah che brutta bestia il denaro, capace di scavalcare l’umanità, autostop no, 50 euro si, eppure ero sempre io, quello che era lì una manciata di minuti prima con lo stesso zaino in spalla.
Il pochi minuti mi portano da Arco a Dro dove avevo lasciato il furgone ed in tempo zero crollo con il sorriso stampato sul viso. Anche questa è andata.
Quando il fisico non ce la fa più fallo con il cuore.
Con questa semplice frase racchiudo questa meravigliosa avventura.
Fabio Olivari
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